Innanzi tutto: un libro di autentica narrativa umoristica; una comicità scritta, non di
derivazione televisiva, che filtra con gli artifizi dei costrutti letterari l'osservazione
attenta e precisa del reale. E poi: un affresco ironico e affettuoso di un tempo e di un mondo;
tanti tasselli, molteplici situazioni e svariati personaggi per formare - e fermare sulla carta -
la vita nel Palazzone. Un immenso edificio popolare, tipico di qualsiasi periferia italiana,
abitato da immigrati meridionali; il tutto visto, vissuto e raccontato con gli occhi di un
ragazzino di dieci-dodicianni, figlio, perfettamente integrato fra i "diversi",
dell'unica famiglia autoctona. L'ambientazione nei primi anni Settanta è scrupolosamente
ricostruita, sì da conferire al testo una veridicità che, se non fosse per l'incalzante brio
narrativo, potrebbe fare di INDIANI BARBARI un saggio di costume. Ogni tassello costituisce
un quadro a sé, un piccolo gioiello, cesellato da un linguaggio appropriato grazie soprattutto
alla sua atipicità letteraria. Non vi è vera trama ma il lettore è portato a immaginarsi infiniti
romanzi che paiono scaturire da ogni capitolo e a visionare, come in una sala di montaggio, una
nitida sceneggiatura da pellicola neorealista. E ancora: dal racconto delle avventure quotidiane,
delle amicizie, dei primi amori, con la conseguente scoperta del sesso, emerge quell'armoniosa
disarmonia che è l'amalgama fra differenti genti: un amalgama speciale fatto della normalità di
ogni giorno, di chi, fanciullo, non è ancora stato corrotto dalle interessate fobie razziste degli
adulti. Infine la chiusura: un fatto estraneo a interrompere quel fluire del vivere senza riuscire,
però, a interferire con l'onirico del nostro giovane narratore.
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